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La galleria di Burns John H.

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“Nella tarda primavera del ’44, dopo sei mesi a Napoli o nei dintorni, mi imbarcai su una liberty ship alla stazione marittima e salpammo verso casa… Erano stati i sei mesi più ricchi, più tremendi della mia vita, cruciali. E’ difficile descrivere la Napoli di quei mesi: chi l’ha vissuta non solo può dimenticarla ma ne rimane, credo, per sempre condizionato”. Così William Weaver, oggi scrittore, musicologo e traduttore, allora soldato americano, ricorda la Napoli milionaria, quella di Eduardo De Filippo e della “Pelle” di Curzio Malaparte. Sempre nella primavera del ’44 si aggirava per Napoli, un altro americano, John Horne Burns, appassionato di Hemingway e di musica, degli italiani e dell’Italia (dove sarebbe morto da lì a qualche tempo a soli trentasei anni). “Uno che ha capito”, disse di lui un critico dai gusti difficili, quasi impossibili, come Emilio Cecchi dopo aver letto “La Galleria”, il libro dove Burns racconta, come nessun altro è riuscito a fare, la lotta per la vita che si svolgeva nelle strade e nei vicoli di Napoli, e soprattutto nella Galleria Umberto, palcoscenico di miseria e di nobiltà, corte dei miracoli, tempio e bazar, gran teatro del mondo. Ci sono città e stagioni che per la dolcezza o l’amarezza del vivere fanno ormai parte della leggenda: la mobile Parigi di Hemingway e Fitzgerald, la cupa Vienna del Terzo uomo, la Roma aperta di Rossellini. E ogni volta c’è stato uno scrittore o un regista a raccontarle. Quella Napoli ha avuto Burns, autore di un libro che non si dimentica e che oggi torna dal passato. Un flashback senza le censure che ne accompagnarono la prima edizione italiana e senza il quale resterebbe incomprensibile la trama della nostra storia. Della nostra Storia.

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